(di Maria Grazia Apollonio, psicologa-psicoterapeuta, Centro Antiviolenza Associazione G.O.A.P., Trieste)
“Dispone collocarsi il minore presso idonea struttura tipo casa-famiglia.
Dispone la temporanea interruzione del legame disfunzionale tra madre e figlio.
Al termine della permanenza in struttura, dispone l’affidamento esclusivo e il collocamento del minore presso il padre.
Dispone la ripresa graduale dei contatti con la madre in via inizialmente protetta e tutelata al fine di verificare e arginare ogni possibile ulteriore inquinamento”.
Questo leggono molte donne nelle sentenze che sempre più spesso emettono i tribunali italiani. Un/a bambino/a che, dopo la separazione dei genitori, esprime paura e resistenze verso il padre tanto da rifiutare di frequentarlo può venir prima collocato in comunità con l’interruzione momentanea di ogni rapporto con la madre e, successivamente, affidato proprio al genitore rifiutato.
Di casi del genere, ormai, è piena la cronaca e interessano tutto il territorio nazionale.
Il più “famoso” è forse quello di Laura Massaro, che proprio in questi giorni affronta un nuovo processo presso il Tribunale dei Minorenni per evitare che il figlio venga collocato in casa famiglia. O quello dei quattro fratelli di Cuneo, strappati alla madre e collocati prima dai nonni paterni e poi in case famiglia separate, che a un certo punto hanno iniziato lo sciopero della fame.
Queste storie, e le decine che i centri antiviolenza della rete D.i.Re conoscono e seguono, hanno sempre per protagoniste donne che hanno denunciato l’ex compagno per violenze e maltrattamenti. Possono riguardare bambini e bambine che a loro volta hanno riferito di venir picchiati o in alcuni casi sono stati abusati dai padri o hanno assistito alle violenze paterne contro la mamma.
I giudici e soprattutto i consulenti psicologi forensi ai quali i giudici si appoggiano, ritengono le dichiarazioni di mamme e bambini/e non credibili: quelle delle donne sarebbero strumentali e finalizzate a ottenere vantaggi post-separazione o semplicemente vendetta, le paure espresse da bambini e bambine sarebbero non motivate dai comportamenti paterni bensì indotte dal condizionamento materno.
Dietro questa lettura si nasconde un concetto aspramente criticato dalla comunità scientifica: quello dell’alienazione parentale.
Un concetto di fatto usato per negare e minimizzare le violenze e il loro impatto, piegato alle tesi degli avvocati degli uomini-padri maltrattanti, in un disegno in cui le operatrici dei centri antiviolenza riconoscono il proseguimento degli abusi da cui le donne hanno cercato di sottrarsi e di sottrarre i/e loro figli/e.
Un concetto nato negli Usa la cui scientificità non è stata riconosciuta né dall’American Psychological Association, né dall’Istituto Superiore di Sanità, e il cui uso è stato stigmatizzato da Dubravka Šimonovic, Special Rapporteur delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, in quanto violazione dei diritti e del principio di superiore interesse del minore.
Per non parlare della Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne e la violenza domestica, in vigore in Italia dal 2014, che vincola a tenere conto della violenza domestica e del coinvolgimento in essa dei figli nello stabilire la forma dell’affidamento e del collocamento.
Contro il concetto di alienazione parentale si è levata anche la voce autorevole del CISMAI, il Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia che nelle sue Linee guida sui requisiti minimi per gli interventi nei casi di violenza assistita e maltrattamento sulle madri ricorda che “nei casi in cui si evidenzi il rifiuto del figlio a vedere il padre, occorre valutare in prima istanza l’ipotesi che esso sia dovuto alla paura conseguente all’aver subito e/o essere stato testimone di violenza agita dal padre stesso.”
Già nel 2015 era stato il Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza a evidenziare “la necessità di porre attenzione ai casi di violenza assistita ai danni dei bambini” e chiedere espressamente “di escludere in questi casi l’affidamento condiviso onde evitare l’esito disastroso di non riconoscere i danni del genitore vittima e del figlio testimone e di diluire la responsabilità del genitore maltrattante”.
Ma di tutto questo consulenti e giudici sembrano non tenere conto; così come non tengono conto (né forse conoscono) i molti studi pubblicati in prestigiose riviste scientifiche – che pure dovrebbero conoscere – che evidenziano come il forzare o l’imporre il rapporto con un genitore rifiutato si traduca di fatto in un irrigidimento del rifiuto stesso.
Alcuni studi statunitensi, in particolare, hanno osservato nel tempo gli esiti di tale “trattamento” – non a caso definito dal suo ideatore, Richard Gardner, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 “terapia della minaccia” e oggi definito “parentectomia” – sulla salute e sul benessere di bambini e bambine, evidenziando nel medio e nel lungo termine vissuti di impotenza, sintomi di ansia, depressione, dissociazione, sintomi post-traumatici. Alcuni avevano agito fughe, comportamenti di autolesionismo e tentativi di suicidio, alcuni si erano addirittura suicidati.
Anche la Corte Europea dei Diritti Umani raccomanda la limitazione di provvedimenti coercitivi nel rispetto del superiore interesse del minore, stabilendo “un giusto equilibrio tra l’interesse del figlio a vivere senza forti sollecitazioni emotive e quello del genitore non affidatario a mantenere con lui rapporti frequenti”.
Insomma, molta scienza invita a tenere in seria considerazione le paure espresse dai bambini e dalle loro mamme e a non imporre provvedimenti coercitivi lesivi per il loro benessere e per la loro tutela e a volte, come molti casi di cronaca anche recente dimostrano drammaticamente, per la loro sopravvivenza.
Eppure nei tribunali italiani avviene tutt’altro, al punto che l’agenzia di stampa Dire ha dedicato a questi casi una apposita rubrica del canale DireDonne intitolata “Mamme coraggio”. Perché di coraggio, e forza, per combattere contro questo pregiudizio sessista nei loro confronti che continua ad albergare ed essere riproposto all’interno delle mura dei tribunali, ce ne vuole davvero molto.
Il problema ha assunto dimensioni tali che la stessa Commissione d’inchiesta del Senato sul fenomeno del femminicidio e di ogni forma di violenza di genere ha avviato un’indagine di cui aspettiamo i risultati, pur potendo quasi preannunciarne l’esito in base alla nostra esperienza.
Ci si chiede come sia possibile che “professionisti della salute mentale” e professionisti della giustizia rimangano sordi a tutto questo, come sia possibile che i diritti delle bambine e dei bambini e dei loro genitori protettivi vengano continuamente calpestati, in nome di una pseudo-scienza e di una cultura patriarcale che una società moderna e civile dovrebbe aver abbondantemente valicato.
Da parte nostra, nei centri antiviolenza della rete D.i.Re, continueremo a lottare. Perché questa altro non è che vittimizzazione secondaria. E nessuna donna che ha subito violenza, nessun bambino o bambina che a quella violenza ha assistito, meritano di subire violenza anche dalle istituzioni che dovrebbero proteggerli.